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Tra le molteplici modulazioni del secessionismo occorre annoverare quella involontaria, per i calabresi, che deriva, oggettivamente, dal crollo di un viadotto, il quale, ironia della sorte, si chiama Italia.
Fu costruito negli anni ’70, lungo l’arteria autostradale, meglio conosciuta come A3. Precisamente tra i comuni di Laino Borgo e Laino Castello. Quasi al confine che traccia la linea di demarcazione tra Calabria e Basilicata. E’ venuto giù lo scorso 2 marzo, provocando la morte di un operaio rumeno. Le cronache, nell’immediatezza del fatto, si incaricarono di riferirne con dovizia di dettagli. A distanza di mesi, il crollo sembra essere stato rimosso dai racconti delle più blasonate testate giornalistiche. Eppure trattasi di un caso singolarissimo. Allo stato, il viadotto, posto sotto sequestro dalla Procura della Repubblica di Castrovillari, si erge in tutta la sua maestosa e tragica interruzione. Quale metafora di un mancato e mancante raccordo fisico tra Nord e Sud.
Dei lavori di ripristino non v’è traccia. L’Anas, di recente, ha sottoposto al vaglio della magistratura un progetto che, se tutto andrà bene, conoscerà tempi lunghi di realizzazione. Dal suo canto, il governo Renzi, distratto dall’emergenza che riguarda il reflusso esofageo delle tartarughe della Tanzania, non sembra nutrire soverchia preoccupazione rispetto al dato clamoroso che il Sud, di fatto, sia stato sospinto, dopo lo sgretolamento del ponte, lungo l’abisso del più angosciante isolamento.
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L’esecutivo regionale, peraltro, vanta uno scarsissimo potere contrattuale rispetto a Palazzo Chigi che, attraverso il titolare del Ministero delle Infrastrutture, Del Rio, più volte avvistato da queste parti, rassicura e dispensa promesse, sin qui, disattese dall’involversi dei fatti. Siamo al “secessionismo infrastrutturale”.
Che, per originalità, supera ogni altro sussulto separatista. Altro che storie. Il leghismo bossiano dei primordi, al confronto, è teoresi filosofica. In Calabria, al contrario, tutto è compiuto. Potenza detonante dell’evento imprevisto dalle solite imperizie o prevedibile proprio a causa di queste.
E, purtuttavia, c’è qualcuno che avversa energicamente il “fato”, alle nostre latitudini. In luogo dei partiti, dei sindacati, delle blasonate nomenklature del Palazzo. In luogo della comunità stessa che appare sedata e vinta. Qualcuno che rivendica, in nome e per conto della sua gente, la titolarità di una traiettoria da seguire perché non ci si consegni alle molli blandizie dell’ineludibile destino. Un imprenditore, tra i più apprezzati in Italia ed all’estero: Daniele Rossi. La sua Associazione, non a caso, si chiama La Calabria che Rema (evidentemente contro quella che frena). Quest’ultima, con coraggio e determinazione, da tempo, copre lo spazio disertato dalla politica politicante, ostaggio di liturgie siderali.
“Mi rifiuto -dice Rossi- di essere costretto ad una condizione di ‘separato’ dalla mia italianità. Combatto una battaglia di orgoglio- aggiunge il vicepresidente di Unindustria Regionale -contro chi vuole sfrattare la Calabria dalla dimora nazionale, decretandone, nei fatti, il confine ultimo autostradale. Parlo a nome dei tanti- rimarca Daniele- che non si accontentano più delle vacue promesse degli arcinoti attori di una politica, quella sì, ormai in assetto secessionista rispetto al Paese Reale”. Lo fa dal luogo del delitto, Laino Castello, appunto,dove ha condotto cittadini e giornalisti perché si avvedessero dello stato dell’arte. Come dire: Se non remi ,ti remano contro. Avanti tutta. In mare aperto.
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